Si è soliti considerare il fallimento come l’atto finale dell’esistenza di un’impresa, quasi un momento “improvviso”, inaspettato e sorprendente della conduzione imprenditoriale. È come se, ad un certo punto, l’azienda inciampasse improvvisamente, senza accorgersi, in una voragine da cui è impossibile uscire.

Per alcuni economisti, il fallimento è visto come addirittura “inevitabile”, come morte naturale di un sistema che si comporta quanto un essere vivente: nasce, cresce, si riproduce e, definitivamente, muore.

È chiaro che, forse, il fallimento può essere inteso non soltanto come un “errore di percorso” o la “sintesi finale di un’esistenza” che non può superare la barriera del tempo. È, probabilmente, vero, invece, considerarlo per quello che è: la distruzione di un’idea che non ha saputo più generare altre idee. Diventa ovvio concordare che, se un’azienda smette di pensare, il posizionamento nel mercato si pone anomalo rispetto al significato stesso che essa assume: ossia, un sistema vivente capace continuamente di pensare per la massima utilità per gli altri.

Ed è in questi termini che ci poniamo una domanda: le imprese devono fallire o possono fallire?

Per capirlo basta ragionare sul perché un’organizzazione, ad un certo, punto smette di esistere. Il parametro che conduce, inevitabilmente, l’impressa a fallire è l’improduttività, per meglio dire, l’incapacità, divenuta oramai congenita, di produrre utilità ai propri utilizzatori (fornitori, collaboratori e clienti, in sintesi le cosiddette collaborazioni) e, quindi, di essere contributiva al sistema economico-sociale del quale fa parte.

La mancanza di produttività, oltre a produrre un point break finanziario inesorabile, induce alla demotivazione, ossia alla mancanza di credo nello scopo per il quale, ogni giorno, lottare per un cambiamento chiamato evoluzione. Questa generalizzata latenza di fiducia del miglioramento verso il futuro, porta l’organizzazione a smettere di credere in sé stessa e, quindi, a mancare di autostima verso la sfida del miglioramento continuo, l’eccellenza.

Una seconda domanda, a questo punto, si pone più precisa: perché un’impresa, capace fino a poco prima di essere produttiva, smette di esserlo e pone fine, così, alla propria esistenza?

La risposta è semplice… Perché il mercato, ossia il sistema attorno ad essa che muta continuamente, disordina impulsivamente i dati stabili per cui l’organizzazione si è ordinata, per meglio dire, posizionata nel particolare e nella prospettiva più efficace per il momento.

Per il momento, per l’appunto. Di qui l’errore, ossia l’incapacità strategica dell’impresa di analizzare il disordine inevitabile esogeno del mercato e, per osmosi tra sistemi, di dare logica ad un disordine endogeno per creare la sintesi, la focalizzazione su “cosa fare e su cosa ottenere” per riordinare l’organizzazione e proporre una nuova spinta al cambiamento aziendale per il cambiamento del e nel mercato. Tale dinamicità continua è l’evoluzione, la produttività, la motivazione a credere, creare e crescere attraverso nuove idee ed azioni coerenti.

Ecco perché affermo che l’impresa “non deve morire” perché evento inevitabile. Le organizzazioni hanno l’opportunità di rimanere evoluzione positiva eterna, poiché un’organizzazione non è un singolo individuo, ma una serie di generazioni e le generazioni evolvono come serie ininterrotta di micro evoluzione verso l’adattamento vincente verso il futuro. Avere un chiaro e determinato orientamento al futuro è la capacità strategica dell’impresa, della leadership che la compone.

La mancanza di orientamento strategico è il fattore che conduce l’azienda al fallimento.

In un contesto mondiale che premia i modelli autentici e capaci di generare evoluzione, non vi è posto per una leadership incapace di definire, analizzare e sviluppare strategicamente un progetto strategico sfidante.

La strategia non è un’emergenza aziendale, ma una competenza capace di realizzare la massima produttività e, di conseguenza, la massima motivazione al cambiamento dell’organizzazione. La cosiddetta auto-organizzazione.

La risposta? Le aziende possono fallire, non devono fallire.

Vale.

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Autore

Luis Humberto Ferrari Blanco

Luis Humberto Ferrari Blanco

Laurea in Economia e Commercio all'Università degli Studi di Parma, con specializzazione in Marketing Internazionale. Ha sempre inseguito tre passioni: le persone, l'economia e la matematica. Il 18 ottobre 2012 fonda hengi, human engineering, insieme a Claudio Baldassini e Sara Gavazzi, quest’ultima purtroppo deceduta prematuramente nell'agosto 2017.
Luis Humberto Ferrari Blanco

Luis Humberto Ferrari Blanco

Laurea in Economia e Commercio all'Università degli Studi di Parma, con specializzazione in Marketing Internazionale. Ha sempre inseguito tre passioni: le persone, l'economia e la matematica. Il 18 ottobre 2012 fonda hengi, human engineering, insieme a Claudio Baldassini e Sara Gavazzi, quest’ultima purtroppo deceduta prematuramente nell'agosto 2017.

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